PREMIO CAVALLINI 2001
DIECI ANNI DI UNIVERSITÀ CON I MIGLIORI PROFESSORI DEL MONDO
autointervista di Alain Elkann
Fin da ragazzo, non avendo saputo essere né un pittore né uno scultore e non avendo la capacità tecnica di esprimere ciò che sentivo attraverso il disegno o attraverso la scultura, verso i diciassette anni ho “ripiegato” sulla scrittura, che per me doveva essere scrittura di fiction o di fantasia. Non leggevo i giornali, non mi interessavano le notizie. Mi incuriosivano da una parte gli scrittori, i loro romanzi o racconti, e dall’altra, naturalmente, la vita. Mi interessava, più di ogni altra cosa, la loro biografia. Ricordo che avevo una passione maniacale non solo per le opere di Joyce (Ulisse, Dedalus, o Gente di Dublino), ma soprattutto per come Joyce viveva: per esempio Joyce amico di Svevo, che da Trieste si trasferisce un inverno a Roma, e da lì, infelice, se ne torna a Trieste. Insomma, mi piaceva capire come viveva uno scrittore. Nella mia vita di scrittore, proceduta per un certo tempo, in parallelo con un lavoro editoriale, improvvisamente verso i quarant’anni, mi venne chiesto di scrivere Vita di Moral1ia, in forma di intervista. Mi sembrava un’intrusione spaventosa. Ero furibondo di doverlo fare: non era il mio mestiere; ero sempre molto reticente al giornalismo, al fare altro che racconti e romanzi. Tuttavia si fece. In seguito nel mio lavoro ci furono interviste per La Stampa e per la televisione. Capii che, essendo io in gran parte un autodidatta, l’ intervista era la continuazione del mio essere apprendista. Significava entrare nella vita degli altri, vedere dove vivono, se c’è odore di cucina in casa loro, se sono in mutande o in doppiopetto, se sono spavaldi o non lo sono. Scoprii che nelle interviste mi piaceva chiedere, per esempio, a Versace come si cuce un vestito, a Gae Aulenti come si progetta una casa, a Zoff come si fa il commissario della nazionale o il portiere, a Messner come si scala una montagna, a un politico cos’è una lotta parlamentare. E così ho fatto, da Moravia in poi, dicci anni di università con i migliori professori d’Italia, e forse, a volte, del mondo: un insegnamento straordinario. Ho imparato cose sublimi e cose piccole, da questi personaggi. Da come arredano la casa a come si vestono, dai libri che hanno in biblioteca ai loro orari di vita; se viaggiano molto e come si fanno una valigia. Ho avuto il privilegio di “succhiare” quelle informazioni, che sono materiale e manna per un romanziere. E grazie alla televisione ho imparato un’altra cosa molto importante: la sobrietà e la brevità delle domande, il saper “tagliare”. Saltare magari anche di palo in frasca, praticando la non-logica del romanzo. L’intervista è una visita che io faccio a qualcuno. È un piacere, un divertimento, una parte della giornata, che ha uno scopo: fissare in uno schema quel momento. Un momento di enorme concentrazione, un happening che nasce dalla curiosità. Mi ricordo una volta che non sapevo cosa chiedere a Tinto Brass. Mi annoiavo, a Cinecittà, tra attricette, puttane, donne sguaiate, nanetti, e aspettavo. Poi entrando vedo quest’uomo con un enorme sigaro in bocca e, non sapendo assolutamente cosa domandargli (perché una delle grandi regole dell’intervista è di non essere preparati), vedendolo fumare il sigaro e vedendolo grasso, gli dissi: “Ma il suo modello, chi era, Orson Welles?” Lui arrossì. Rispose: “Come lo sai? lo sono sposato con la sorella di Cipriani e la locanda di Torcello è nostra. Da ragazzo vedevo lì Orson Welles che mangiava con enorme voracità e fumava il sigaro”. E l’intervista partì da Welles per tornare a Tinto Brass. Ecco, uno deve sempre, come in un romanzo, trovare un “manico”. lo non ho la curiosità aprioristica di far dire questo o quello. Lentamente capisco quello che voglio che mi si dica, dove voglio andare, e così si comincia. Lascio che la gente dica quello che vuole; che si esprima e che sbagli, che s’inventi il personaggio che si è costruito. Ci sono delle interviste a tema e altre no. Moravia era un maestro e un autodidatta lui stesso, e penso che un artista debba imparare da sé a conoscere le cose che gli servono, i materiali di cui ha bisogno, perché l’opera di un creatore è un’opera e un percorso individuale. Oltre a questo c’è il caso, c’è la grande casualità della vita. Fare un’intervista ha a che vedere con la vita, infatti non puoi intervistare un morto. Probabilmente sarebbe interessante. Ci sono delle interviste che ancora mi sorprendono. Ne ho fatta una al cardinale Etchegaray sulla fede dei papa, durante il viaggio in Israele e in Giordania. E quando lui spiega che il papa va nei luoghi sacri per rinforzare la sua fede, in modo da poter rinforzare quella degli altri, ci sono momenti di tale emozione, in me e nel cardinale, che alla fine lui si sente in dovere di dirmi: “Ma lo sa che io, tutte queste cose non le avevo mai dette prima, fuori da una chiesa?”. Un’altra cosa che amo nel mio lavoro è la “cucina”, l’ho già detto: io adopero da anni, da sempre, dei quadernetti azzurri svizzeri di una certa misura, perciò quando un’intervista ha superato di tre pagine la prima metà del quaderno, è finita,la taglio. È questione di misura: scrivo tutte le domande e scrivo tutte le risposte. E la mia intervista è la dettatura precisa di tutto quello che ho chiesto e di tutto quello che viene risposto e basta. Ho fatto un’intervista a Fanny Ardant che non è pubblicata. È un personaggio che inventa se stessa e, in qualche modo, anche le sue risposte sono inventate: assolutamente letterarie. Lei inventa il suo personaggio e risponde come risponderebbe il suo personaggio. Dicevo della misura; c’è tutto un rituale, una regola, molto importante nel ritmo delle interviste. La gente adora parlare di sé, allora parla parla parla e tu dici: “Grazie”. Solo tu decidi quando “intervista finisce. Come la poesia, l’intervista ha della regole; c’è in questo lavoro una specie di metrica. E io, credendo molto di più nel lavoro e nella pratica della “cucina”, dopo un po’ ho maturato un istinto, un’abitudine, un esercizio a far parlare di sé gli altri. E, se ci penso, a me non piace parlare di me stesso e non mi farei nessuna domanda. Non amo assolutamente le interviste. Non voglio dire niente. Non mi interessa proprio rispondere. Chi sono devono saperlo gli altri, non devo essere io a raccontarmi. Ho scritto Vita di Moravia: è stato vivere due anni con Moravia, vivere nel senso di andare al ristorante, al cinema, parlare di amori, di sogni, viaggiare, andare in America, in Canada, stare a Parigi, essere a Roma, a Sabaudia, litigare, non lavorare, interrompere, soffrire: le pagine su Pasolini, per esempio. Mi ricordo che a Sabaudia, un caldo terrificante, Moravia sudava nella schiena parlando di Pasolini, per tre giorni, in quella stessa casa dove anche Pier Paolo era vissuto. Una volta raccontai a Moravia di un mio viaggio a Berlino. Subito disse: “Andiamo in albergo; mi sono dimenticato di raccontarti che anch’io sono stato a Berlino”. In meno di un ‘ora, nella sua camera d’albergo, mi dettò con passione la storia del suo viaggio, quando vide Hitler parlare in modo forsennato da un balcone. fo non so se veramente lui abbia visto Hitler, se veramente sia stato a Berlino. So che in questa conversazione ha scritto un meraviglioso racconto, in mezz’ora, a ottant’anni passati. Mi ricordo che, durante il viaggio, aveva preso appunti per delle parti da aggiungere al libro su carta intestata dell’albergo. Nella prima stesura del volume aveva parlato moltissimo di Elsa Morante, di cui era intellettualmente innamorato, e meno di Dacia Maraini, di cui era innamorato in tutti i sensi. Bisognava quindi aggiungere vari episodi riguardanti la sua vita con Ici... E così si fece. C’erano personaggi di cui raccontava con gioia episodi, momenti. Gli piaceva molto parlare di Carlo Levi, mentre non voleva parlare di Chiaromonte; gli piaceva parlare di Pannunzio. C’erano sedute facili e capricci: suoi, miei; c anche offese: io mi offendevo, lui si offendeva. Spesso c’era una specie di gioco, che era quello di dire che ci avevano già pagato “anticipo per scrivere, quindi ogni volta che io dicevo: “Non lo faccio più il libro, se fai così”, lui rispondeva: “Ci hanno pagato “anticipo”. Alla fine quando il libro è uscito scoprimmo che l’anticipo non era mai stato pagato. Ci sono state lunghe pause, magari di un mese, in cui Moravia tornava a Roma e io dovevo stare a Parigi perché allora lavoravo in una casa editrice. Il ritrovarsi dopo un’interruzione era una novità. In Vita di Moravia questi sbalzi d’umore traspaiono, e anche la diversità dei luoghi dove abbiamo lavorato, perché è stato proprio vivere in qualche modo insieme, con tutto ciò che comporta. I riti, per esempio. Se si lavorava a Roma io arrivavo e lui era già al tavolo, aveva finito di scrivere le sue cose, stava prendendo il tè. Ci sono voluti mesi per fargli capire che anch’io forse avrei dovuto bere qualcosa. C’era, in questi incontri, un insieme di tutto: di ritualità, di lavoro1 di vita d’amicizia, di vita comune, e a un certo punto ne è uscito un libro. E non è un ‘ intervista, il libro di Moravia: è Moravia che parla per centinaia di pagine. li manoscritto originale, che è stato regalato alla biblioteca dei manoscritti preziosi dell’Università di Harvard negli Stati Uniti, più di milleottocento pagine, è un lavoro enorme, e Vita di Moravia, è un grosso frammento di questo nostro “ lungo incontro”. Il libro Interviste, nell’arco di undici anni, è la storia di una cultura, di un paese, di alcuni dei suoi più diversi personaggi. Ho fatto ormai centinaia di interviste scritte e televisive, che mi hanno portato in un ‘ infinità di case e di luoghi di lavoro, di teatri, di città. Con temi differenti. Ci fu il periodo dei sindaci, quello della politica, poi ci sono stati i grandi vecchi : Norberto Bobbio, Rita Levi Montalcini, Leo Valiani, Pietro Ingrao. Ci sono state interviste a cardinali e a uomini di chiesa. Sono andato davanti alle Cascate di Iguaçù ad intervistare don Arturo Paoli su Dio e al Cottolengo di Torino da suor Giuliana GaJ1i. Sono stato con il cardinale Noè e Peter Ustinov dentro San Pietro, di notte, con tutto il corpo diplomatico e la curia. Ho intervistato padre Piccirillo al Monte Nebo, dove poi è andato il papa, e a Palazzo Chigi vari presidenti del Consiglio, i ministri di Grazia e Giustizia e degli Esteri. Mi ricordo Ciampi con il suo computer al ministero del Tesoro, Amato nella sua casa di campagna ad Ansedonia; Tronchetti Provera nel suo ufficio a Milano. E poi Messner, nella sua casa vicino a Bressanone, un castello, una fine di agosto, in una giornata di sole, e le mele dappertutto. Mi ricordo Giulio Einaudi in studio a Telemontecarlo, a casa sua a Roma, a casa sua a Torino, alla casa editrice Einaudi; Attilio Bertolucci in un appartamento modesto a Monteverde, e in un appartamento ancora più modesto, Mario Luzi a Firenze: mobili mode mi, libri, un certo disordine di giornali, taccuini. E Adriano Sofri nella prigione di Pisa in una stanza vuota, con solo una scrivania; Carmelo Bene, tutto vestito di nero, in un appartamento impossibile, un pianterreno romano dove non voleva fare l’intervista; Paolo Conte davanti ad un pianoforte ad Asti, in uno studio di registrazione. L’intervista televisiva a Conte andò in onda la sera in cui ci fu la tragedia di Falcone, e Beniamino Placido disse “Questa intervista è una risposta al terrorismo”. E ancora: Isabella Rossellini, all’Hotel Raphael a Parigi, che per tutta la famiglia Rossellini è sempre stato casa, ) l’unico punto di riferimento di una famiglia di nomadi. Sophia Loren, in un appartamento a Ginevra quando compì sessant’anni, elegantissima e Edda Ciano al telefono, di notte, che diceva delle cose orribili. E poi aggiungeva: “Non ho niente da dire”. Ricordo anche quelli che non rilasciano interviste: Francesco Rosi, che inseguo senza riuscire a convincerlo; Nanni Moretti, con il quale non riesco a parlare neanche al telefono: Cuccia, la cui segretaria, con molta discrezione, mi disse: “Elkann, il presidente è onorato, la ringrazia, ma come lei sa non dà mai un’intervista”. E se l’ex presidente Scalfaro non l’ ho ancora intervistato, mi vengono in mente, invece, Francesco Cossiga, a casa sua a Roma, Silvio Berlusconi ad Arcore, tre mesi prima della sua entrata in politica, quando mi disse: “Elkann, troviamo una formula per chiudere”. E io risposi: “Ma presidente, la scelga lei”. E lui: “Una formula così, a braccio, una qualunque. “Ma si, quella che vuole: la prima cosa che le viene in mente.” E lui allora: “Bé, chiudiamo così, Elkann; ci penso ora per la prima volta. Come messaggio direi per esempio: Forza Italia”. E poi fermandosi: “”Ma non l’ho detto bene. Lo vorrei dire di nuovo: Forza Italia”. E io non sapevo che due mesi dopo sarebbe nata Forza Italia; lui sì. Di altre interviste ancora vorrei parlare. Quando conclusi il libro con il cardinal Martini chiesi un’udienza. Era il mese di agosto. Lui era solo e in camicia. L’avevo visto vestito di rosso, con la fascia, in clergyman, ma in camicia bianca mai. E mai fui così intimidito, perché non si capiva più che era un cardinale. Era un signore elegante con una camicia bianca. Mi disse: “Elkann, bisognerà scrivere un messaggio finale, una postfazione.” Ho detto: “Sì”. “Ma lei quanto tempo mi dà, Elkann? Sono molto preso:’ “Guardi, Eminenza, massimo tre mesi.” E lui: “Mi chiede molto”. Ci lasciammo a mezzanotte. La mattina alle sette e mezza mi chiamò il suo segretario e mi disse: “Senta, Elkann, dove posso faxarle la postfazione di Sua Eminenza?”. Per Le mura di Gerusalemme, invece, avevamo appuntamento con il cardinal Martini in un convento di suore al Vaticano. lo arrivo e vedo un collega di Famiglia Cristiana, un altro giornalista. Mi sembra strano; dico: “Ho un appuntamento con Sua Eminenza alle quattro. Sono Elkann”. La suora guarda c mi comunica: “Sì, Sua Eminenza verrà tra dieci minuti”. L’altro: “Ho un appuntamento con Sua Eminenza, sono di Famiglia Cristiana”. “Sì, Sua Eminenza scende tra dieci minuti”, risponde la suora. Passano dieci minuti, suona il telefono. La suora ritorna e comunica: “Elkann, sta scendendo Sua Eminenza”, poi all’altro signore: “Sta scendendo Sua Eminenza”. Noi ci guardavamo un po’ in cagnesco, tutti e due. Dopo dieci minuti sono apparsi insieme il cardinale Tettamanzi, che aveva appuntamento con il giornalista di Famiglia Cristiana, e il cardinale Martini, che aveva appuntamento con me. Abbiamo fatto l’intervista in due stanzette, l’una vicino all’altra. Ho l’impressione che al mio collega resti la curiosità di sapere cosa ho chiesto io al cardinale Martini, così come a me resta sicuramente la curiosità di sapere cosa lui abbia domandato al cardinale Tettamanzi. E chiudo ricordando due interviste: quella con il professor Elio Toaff, un altro grande amico con cui ho vissuto lunghe sedute, di manina, nel suo appartamento al ghetto di Roma, nel suo ufficio alla sinagoga. Toaff è un uomo fantastico, sorridente, tenero, nonno attento con i suoi nipoti; uomo di polso nella sua missione e, nello stesso tempo, studioso profondo. E l’altra intervista, straordinaria, con Indro Montanelli, alla Versiliana: due ore e mezza di domande e risposte davanti a millecinquecento persone, su molti temi: dall’eutanasia a Giuliano Amato, dalla prostituzione a Camp David. Senza interruzione. Dagli aneddoti sul fascismo ai ricordi di Longanesi, e altro ancora. Montanelli è la persona che ho intervistato più sovente, ma quasi mai su se stesso. È reticente, schivo, non vuole apparire in prima persona. Preferisce dissimularsi dietro le sue idee e i suoi giudizi fulminanti. Fare l’intervistatore è un mestiere speciale. È un vero viaggio, un viaggio tra i luoghi e le persone, dove i luoghi contano, come nella Bibbia. E questa è la mia vita, giorno dopo giorno.
(a cura di Elisabetta Sgarbi)